OTASSAP

A distanza di pochi mesi dalla fine del mio quinto anno di liceo, mi capita, quando giro per i corridoi e per le aule della scuola, di fermarmi a pensare a quanti momenti ho trascorso in questi luoghi (facendo un calcolo approssimativo, considerando circa duecento giorni di scuola all’anno per cinque anni, sono più o meno sessantamila minuti e settecentoventimila secondi trascorsi là dentro, vertiginoso visto così), quante persone ho incontrato, quante insufficienze ho preso (ringrazio soprattutto Verona e la Giampry, vi porterò sempre con me) e quante esperienze ho avuto modo di provare. 

No, non sarà un articolo nostalgico o strappalacrime per tutti gli studenti di quinta come me che iniziano già a sentire la mancanza del liceo. Da primino avrei odiato una cosa del genere sul giornalino, e per quanto io stia invecchiando sia dentro che fuori, non sono ancora a questo livello di patetismo. Come al solito vorrei prendere in analisi questa condizione che mi sta capitando di vivere ultimamente e sfruttarla per arrivare a qualche considerazione più ampia e universale. O almeno ci si prova, ecco. Quello che più mi ha scosso di quanto raccontato prima è il fatto che, nella mia memoria, non ci sia quasi più una diversificazione di quello che ho passato. I ricordi sembrano confluire in un’unica grande cartella che racchiude gli ultimi cinque anni, una cartella che non ha, però, dei paragrafi o dei capitoli, è semplicemente un contenitore offuscato e dal sapore dolciastro che lascia un senso di incerta malinconia quando lo apro. Tuttavia, se analizzo questa cosa, un po’ mi preoccupo. Razionalmente ricordo molto bene (ma veramente bene) i tormenti e le angosce che gli anni del liceo mi hanno inflitto (non sto dando la colpa alla scuola eh, non tutta per lo meno), ma la memoria più “impulsiva” pare aver assimilato tutto senza distinguere le cose belle dalle altre. Se allarghiamo ancora il discorso, questo può essere sintomatico di quello che avviene più in generale con i ricordi legati al passato. Lo stesso meccanismo avviene, per esempio, quando capita di essere tentati dalla voglia di riscrivere a quella ex che ci rendeva la vita un inferno, ma che ora ci pare il paradiso, a confronto della condizione in cui siamo ora. All’epoca però non la vedevamo per nulla così.

Per essere poi catastrofico, un altro esempio sono tutte quelle persone che rimembrano un fantomatico passato idilliaco in cui i giovani erano forti e pieni di vita, le mezze stagioni esistevano e magari i treni arrivavano pure in orario. Ma non è mai stato così. Perché però il passato ci sembra sempre meglio del presente? È molto più comprensibile questo ragionamento se applicato al futuro, in quanto a qualcosa che ancora deve accadere possiamo legare quantomeno la speranza e la fiducia che le cose migliorino. Ma il passato è già successo, ci sono i dati effettivi di come sono andate le cose. Perché la nostra mente ci illude che tutto ciò che è già stato sia meglio di ciò che è ora? Se avete letto almeno un altro mio articolo sapete che le risposte tendo a non darle, anche perché non le possiedo, per fortuna. Ma chiudo, stranamente, citando il mio migliore amico nell’aldilà, il mio caro Giacomo, che nel suo Zibaldone diceva:

“La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, se non altro perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago.” 

Aveva ragione anche stavolta Leopardi. Il tempo distorce ciò che viviamo e rende piacevole anche ciò che, purtroppo, non lo fu. Ma qual è la soluzione, allora? Lasciarsi illudere che ciò che è stato sia meglio di ciò che è ora, o apprezzare ciò che viviamo in questo momento, senza paragonarlo al passato?


Fabio Perricone